Il legame tra professione e diabete

8 gennaio 2020
Il legame tra professione e diabete

Esistono alcune categorie di lavoratori più “protette” dal rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 e altre fortemente esposte. Ad affermarlo è lo studio del Karolinska Institutet di Stoccolma. Ma c’è di più: la ricerca sostiene anche che per alcune categorie di lavoratori il rischio sia addirittura triplicato rispetto al resto della popolazione.

In generale, le categorie più a rischio sarebbero:

  • Impiegati dell’industria manifatturiera
  • Lavoratori di imprese di pulizie
  • Aiuto-cuoche
  • Autisti

Le categorie che sarebbero più protette e, dunque, meno inclini a sviluppare il diabete di tipo 2 nel corso della loro vita tra gli uomini sono:

  • Architetti
  • Ingegneri
  • Professori universitari

Mentre tra le donne troviamo:

  • Fisioterapiste
  • Artiste
  • Scrittici
  • Creative
  • Igieniste dentali

Cosa starebbe, dunque, alla base della propensione a sviluppare il diabete? Secondo l'indagine sarebbe colpa dello stile di vita che, come vedremo, è a sua volta fortemente influenzato dalla tipologia di lavoro svolto.

La ricerca

Lo studio presentato al congresso annuale dell’EASD di Barcellona e pubblicato successivamente sulla rivista Diabetologia, ha analizzato la relazione tra l’incidenza di diabete di tipo 2 e le 30 categorie di lavoro più comuni.

Il campione selezionato per lo studio era composto da più di 4 milioni di individui (i dati provenivano dallo Swedish Total Population Register). In particolare, sono stati scelti cittadini svedesi nati tra il 1937 e il 1979 che avessero svolto, continuativamente, almeno due anni di lavoro tra il 2001 e il 2013. Sono stati poi registrati i casi in cui il diabete è comparso successivamente, ovvero tra il 2006 e il 2015. Considerando solo persone dai 35 anni di età in su, i casi segnalati ammontavano a 201717.

I risultati

Prendendo in considerazione il campione studiato, in media, l’incidenza del diabete sulla popolazione lavoratrice si attestava attorno al 4,2%: 5,2% tra i maschi e 3,2% tra le femmine.
Le differenze maggiori, però, si sono registrate tra le diverse categorie di lavoratori. 

Tra gli uomini, gli informatici diabetici si attestavano attorno ad una percentuale di incidenza bassa (2,5%), mentre gli autisti e i lavoratori dell’industria manifatturiera toccavano livelli ben più elevati (rispettivamente 8,8% e 7,8%).

Scenario simile si è registrato nel settore femminile. Anche in questo caso, infatti, per le lavoratrici dell’industria manifatturiera si segnalavano percentuali di incidenza alte (6,4%), e di poco più basse sono state quelle registrate tra le impiegate nel settore dei servizi di pulizia (5,1%) e tra le aiuto-cuoche (5,5%). Le più fortunate? Le manager specializzate, con percentuali bassissime.

Costante comune tra uomini e donne è stata invece l’età. Sia negli uomini sia nelle donne la presenza del diabete di tipo 2 è stata maggiore tra gli over 55.

I dati della correlazione

Incrociando i dati e i risultati della ricerca, i ricercatori hanno constatato che, rispetto alla popolazione generale svedese, gli uomini impiegati nella industria manifatturiera hanno un aumento del rischio del 49% di sviluppare il diabete di tipo 2 dopo i 55 anni, mentre le donne, occupate nel medesimo settore, hanno un aumento del rischio dell’80%.

Al contrario gli uomini che svolgono la professione di professore universitario hanno una riduzione del rischio del 46% e le donne impiegate come igieniste dentali o come fisioterapiste hanno una diminuzione del 45%.

Ci sono spiegazioni a questo fenomeno?

La spiegazione risiederebbe nel diverso stile di vita che porterebbe ad avere regimi alimentari e stili di vita differenti. In particolare, gli individui impiegati in settori “a rischio” sono tendenzialmente più sedentari, hanno un girovita maggiore (sono quindi in sovrappeso) e sono fumatori, fattori che portano ad un aumento della massa corporea e del conseguente rischio di sviluppare il diabete di tipo 2.

Chi è impiegato in settori a rischio è dunque condannato? Assolutamente no! La ricerca ha messo in evidenza una correlazione esistente dovuta, come abbiamo visto, più allo stile di vita differente che alla tipologia di mansione. Questo non significa però che ognuno di noi, indipendentemente dal lavoro svolto, non possa mettere in atto una serie di comportamenti virtuosi (dall’attività fisica, al giusto regime alimentare, allo smettere di fumare) in grado di far diminuire drasticamente il proprio livello di rischio.

Il proposito dei ricercatori era proprio quello di spingere i datori di lavoro a implementare programmi specifici di prevenzione creati in base alla professionalità e, quindi, allo stile di vita tipico dei propri dipendenti.

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