Anziani. Nuovo studio Ocse: “Nel 2050 saranno 2,4 miliardi nel mondo. Oggi sono meno di 900 milioni ma in Italia sono già il 21% della popolazione!

15 gennaio 2016 Studi e ricerche
Anziani. Nuovo studio Ocse: “Nel 2050 saranno 2,4 miliardi nel mondo. Oggi sono meno di 900 milioni ma in Italia sono già il 21% della popolazione!

In Italia gli anziani sono già il 20% della popolazione! L’allarme: "i sistemi sanitari non sono pronti” Oggi il 12% della popolazione mondiale ha più di 60 anni, diventeranno il 21% tra 35 anni. Gli esperti dell’Organizzazione internazionale fotografano l’invecchiamento della popolazione globale nel Report Ageing debate the Issues. Per la sanità serve più assistenza territoriale. E poi focus su sviluppo, pensioni e sociale: l'analisi su come cambierà la struttura demografica del pianeta nei prossimi 30 anni e le ‘ricette’ su come affrontare il fenomeno per non rimanere spiazzati.  

Funabashi, ridente città giapponese a est di Tokyo, sono avanti. Qui hanno da tempo aperto un mall dedicato alla terza (ma ormai forse anche alla quarta) età. Gli anziani del terzo millennio sono i più in salute, attivi e longevi della storia dell’umanità. E in più hanno anche una buona pensione. Per questo non potevano sfuggire alle leggi del marketing. E neppure ad un interessante rapporto dell’OCSE (OECD Insights: Ageing debate the Issues), dedicato appunto agli anziani, considerati ormai un ‘fenomeno’ demografico nella maggior parte dei Paesi del mondo. Qualche numero: in Giappone nel 1963 solo 1 persona su 16 superava i 65 anni. A distanza di appena mezzo secolo gli over 65 sono diventati 1 su 4. Nello stesso periodo in Italia gli anziani sono passati da 1 su 10, a 1 su 5. E la tendenza è generalizzata, visto che oggi si contano in tutto il mondo 868 milioni di persone ultrasessantenni, pari al 12% della popolazione, con proiezioni che si spingono verso i 2,4 miliardi per il 2050, quando 21 persone su 100 avranno più di 60 anni. Gli esperti dell’OCSE riconducono le cause dell’invecchiamento planetario a due ragioni principali: si fanno sempre meno figli e si vive sempre più a lungo. Negli anni ’70 la media dei figli nei Paesi OCSE era di 2,7 per donna; oggi siamo a 1,7, cioè ben lontano dal ‘tasso di sostituzione’, necessario per mantenere stabile il numero della popolazione, che è di 2,1 figli per donna. Ma la tendenza è generalizzata. Basti pensare che in India da una media di 5,5 figli per donna negli anni ’70, si è passati agli attuali 2,5. C’è poi la questione della longevità. In Giappone ormai, l’aspettativa di vita alla nascita è di 83 anni (86 per le donne) e in almeno metà dei Paesi OCSE supera gli 80 anni. Un fenomeno questo legato ad una migliore alimentazione, alla disponibilità di acqua potabile, ai progressi della medicina e alle vaccinazioni di massa.

Un fenomeno di questa portata non può non avere importanti ripercussioni sociali. La prima delle quali è che naturalmente sarà necessario lavorare più a lungo prima di poter ambire alla pensione. E comunque, anche oltre la soglia della pensione, gli anziani, nella loro veste di nonni ad esempio, rivestono un ruolo sempre più importante nell’occuparsi (a costo zero) dei nipoti e anche nel contribuire al bilancio familiare dei figli. In più danno un contributo non indifferente all’economia (negli Usa, agli over-50 viene attribuito il 60% dei consumi). Di certo però le previsioni per il futuro non sono rosee. Già nel 2010 in Spagna ad esempio si contava un pensionato ogni due lavoratori attivi. E secondo le previsioni OCSE questo rapporto diventerà 1:1 entro il 2050. Con ovvie conseguenze: problemi nel coprire la spesa pensionistica e tensioni tra generazioni. Molti governi si stanno già attrezzando, innalzando l’età pensionistica, altri danno incentivi a chi vuole rimanere al lavoro più a lungo. 

E per fortuna, gli anziani del terzo millennio sono in generale, nonostante gli acciacchi di repertorio, in buona salute: 2 over-65 su 5 nei Paesi OCSE e addirittura 4 su 5 in Nuova Zelanda si considerano in buona salute. Ma è altrettanto chiaro che più avanti si va con gli anni, più le probabilità di ammalarsi aumentano. Così se una donna europea di 65 anni ha una prospettiva di vita di altri 20 anni, è destinata a viverne almeno la metà in condizioni non ottimali di salute. E questo significa tout court, spesa sanitaria (che già ammonta in media all’8% del PIL) in aumento nei prossimi anni e necessità di ridisegnare l’assistenza sanitaria, mirandola più sulla cronicità che non sull’emergenza.

Cambia la demografia della morte.

Se nel 1850 il 50% dei morti in Inghilterra e nel Galles era rappresentato da persone al di sotto dei 60 anni, oggi il 90% dei decessi si registra negli ultra-60enni. In appena 170 anni, l’aspettativa di vita è cresciuta di 7 anni per gli uomini e di 9 per le donne. In queste stessi regioni, il numero dei centenari è passato dai circa 200 nel 1922, ai 12.318 del 2012; e continuando con questa progressione, per l’anno 2100 gli ultracentenari di sua maestà britannica supereranno il milione. Ma l’elemento di trasformazione demografica più eclatante riguarda la mortalità infantile (al di sotto del primo anno di vita), passata da 154 decessi su 1.000 nati vivi all’inizio del 1900 a 4,4 morti/1.000 nati vivi nel 2011.

Invecchiamento: il futuro dello sviluppo

Le attuali stime prevedono un numero di oltre 2 miliardi di anziani (il 21% della popolazione) entro il 2050; per quell’epoca ci saranno più ultra-sessantenni che ragazzi sotto i 16 anni e sarà la prima volta nella storia dell’umanità. Un fenomeno questo al quale non sono estranee le nazioni in via di sviluppo, dove già adesso vive oltre il 62% degli ultra-sessantenni del mondo. Lo scenario demografico in molti Paesi dell’Asia e del Sud America sta evolvendo così rapidamente da non dar tempo ai governi di adeguarsi.
L’esercito degli over-60 è sempre più nutrito in tutto il mondo; e infatti, non a caso, l’agenda dei Sustainable Development Goal (SDG) per gli anni oltre il 2015 ha per la prima volta riconosciuto gli anziani come parte integrante del processo di sviluppo; occuparsi dei diritti e delle necessità degli anziani è infatti imprescindibile se si vuole perseguire l’obiettivo del ‘non lasciare nessuno indietro’.
L’esistenza di una persona è stata finora considerata divisa in tre tronconi: infanzia (dipendenza), età adulta (produttività), età avanzata (dipendenza). Secondo gli autori del rapporto però non c’è nulla di più lontano dal vero, visto che gli anziani rappresentano spesso una grande risorsa economica, sia per le loro pensioni che per come si occupano dei bambini, migliorando la loro alimentazione, assistendoli nei compiti, ecc. Lo stesso dicasi per i volontari della terza età.
Le persone di età avanzata insomma non sono semplicemente degli anziani, ma maestri, contadini, persone in grado di badare ad altre, professionisti. Persino premi Nobel. Certo però tra di loro ci sono anche persone fragili, affette da demenza, malattie croniche e disabilità varie. Ciò che conta quindi è avere un quadro preciso della situazione per costruire e pianificare il futuro su solide basi, liberandosi dei preconcetti sulla terza età e disegnando politiche che tengano conto del rapido invecchiamento delle nostre società.

Senectus and the city

I giornali sono prodighi di suggerimenti su posti esotici, vista spiaggia o campo da golf, dove ritirarsi in pensione spendendo niente. Ma realtà, fotografata dal rapporto ‘Ageing in the City’, racconta un’altra storia: almeno metà degli over-65 di area OCSE continuano a vivere in città. La popolazione anziana delle metropoli italiane supera di poco il 22% del totale; quella giapponese sfiora il 22%.
Un dato su cui riflettere. Anche per quanto riguarda il settore delle ristrutturazioni, che potrebbe fare un bel business con l’adeguamento degli appartamenti alle necessità degli anziani. Ma anche l’urbanistica dei diversi municipi dovrebbe tener conto delle esigenze degli anziani, assicurando trasporti e servizi adeguati. Così l’OCSE propone di utilizzare un certo numero di indicatori (concernenti la salute, le abitazioni, i trasporti, l’occupazione, ecc…) che aiutino i cittadini e i loro rappresentanti a comprendere meglio i cambiamenti demografici e a pianificare come gestirli. O anche meglio, a precorrere i tempi. Ecco qualche esempio. Lo Yokohama Walking Point Programme (Giappone) incoraggia le persone di tutte le età a camminare, allo scopo di migliorare la salute, utilizzando un programma di ‘fidelizzazione’ tipo quelli dei frequent flyer delle compagnie aeree: più cammini, più punti raccogli e con i punti ottieni sconti nei negozi. Presso l’università della terza età di Lisbona, dei volontari anziani offrono conferenze agli over-50 e iniziative analoghe si registrano presso la Rakuno School in Toyama (Giappone). Ci sono insomma vari modi per mantenere in attività gli anziani e per renderli un ‘fardello’ quanto più leggero possibile per la società.

Sistemi sanitari: non pronti per popolazioni sempre più anziane.

Secondo il rapporto OCSE sull’Ageing, il modello di assistenza sanitaria prevalente al giorno d’oggi non ha tenuto conto delle variazioni epidemiologiche e delle reali necessità assistenziarie della popolazione. Il principale obiettivo a tutt’oggi rimane quello di costruire nuovi ospedali, acquistare attrezzature innovative e costose, migliorare sempre più i servizi per gli acuti. L’invecchiamento della popolazione richiede invece un deciso cambio di direzione, che sposti il baricentro dalla cura di pochi episodi acuti, alla moltitudine delle necessità dei ‘cronici’. Uno scenario che riporta in primo piano il ruolo della medicina di famiglia e della continuity of care attraverso diversi attori sul territorio.
Un esempio di quanto gli attuali sistemi sanitari siano inadeguati rispetto alla crescente complessità di una popolazione in invecchiamento è la demenza, condizione che interessa oggi almeno 47 milioni di persone, destinate a diventare 76 milioni entro il 2030. Il più alto tasso di prevalenza di questa condizione in area OCSE si registra in Francia, Italia, Svizzera, Spagna, Svezia e Norvegia (6,3-6,5% degli over-60 affetti). E non esistono cure, neppure all’orizzonte. In attesa dei progressi della ricerca la vita dei pazienti affetti da demenza e dalle loro famiglie è decisamente difficile. A medici e care giver dovrebbero essere offerti training specifici, dati strumenti migliori per assistere queste persone; dovrebbe essere semplificato il dialogo tra servizi sanitari e sociali. Una ricerca dell’OCSE ha individuato 10 punti che potrebbero fare la differenza, che vanno dal minimizzare il rischio di sviluppare questa condizione, allo sfruttare tutto il potenziale delle nuove tecnologie per supportare questi pazienti e consentire loro una morte dignitosa. Un discorso a parte merita la raccolta dati, ancora assai carente nonostante la nostra sia considerata l’epoca dei big data. Implementare i dati della digital health potrebbe tornare estremamente utile nel campo della ricerca di nuove terapie per le patologie neurodegenerative come la demenza, ma anche per la loro assistenza. Per questo sono necessari investimenti importanti in personale, corsi di formazione, training e per la realizzazione di infrastrutture. Tutti obiettivi che devono fare i conti con la realtà di un budget per le demenze che ammonta a meno dell’1% del totale nel campo “ricerca e sviluppo” in area G7.

I nuovi anziani: smart e “verdi”

L’invecchiamento della popolazione rappresenta unchallenge alla sostenibilità delle società moderne, ma secondo alcuni, l’ingrigimento demografico potrebbe comportare anche dei vantaggi.  Uno studio condotto in Germania, la seconda nazione del mondo in termini di popolazione con età media superiore ai 44,3 anni, focalizzato sulle potenzialità e le opportunità di questa realtà, ha individuato 5 aree di possibili vantaggi.  

La rappresentazione grafica della società tedesca attuale, assomiglia più ad un albero, che alla classica piramide demografica. In realtà questa è la fotografia attuale, mentre nelle prossime decadi, le fasce più anziane attualmente iper-rappresentate diverranno più esigue e tenderanno a scomparire. Nelle ultime due decadi la percentuale d cittadini tedeschi over-65 è aumentata del 2-3%; tra il 2020 e il 2040 passerà dal 23% al 33%; ma nelle successive due decadi tenderà a rimanere stabile su questi valori. Ma anche il grado di istruzione è destinato a crescere; così si stima che dopo il 2050 sarà ben il 46% dei tedeschi ad avere un titolo di studio elevato, contro l’attuale 28%. Un maggior grado di educazione comporta importanti ricadute sullo stato di salute e dunque è prevedibile che aumenteranno gli anni spesi in buona salute. In altre parole i tedeschi che già oggi trascorrono il 60% della vita in buona salute, entro il 2050, passeranno ben l’80% della loro esistenza al riparo da acciacchi e malattie, secondo questo studio. Quindi, la perdita di produttività lavorativa sarà in parte compensata da un più elevato grado di istruzione e da una migliore salute. Una popolazione anziana in numeri più contenuti potrebbe rivelarsi inoltre non solo più produttiva del previsto, ma anche più amica dell’ambiente. I giovani viaggiano e consumano di più, quindi determinano una maggior quantità di emissioni di CO2, rispetto ai pensionati. Così se le emissioni sono aumentate del 30% dagli anni ’50 ad oggi, nelle prossime decadi potrebbero addirittura ridursi a livelli pre-anni ’50. L’attuale struttura demografica potrebbe inoltre contribuire a rendere più benestanti le generazioni future, che erediteranno beni da dividere tra meno persone. Insomma gli anziani secondo questo rapporto non sono, né saranno in futuro solo un fardello ma una miniera di opportunità. Il futuro non sarà tutto rose e fiori. Ma di certo neppure così nero come lo si dipinge.

Lavorare più a lungo per giovare all’economia e alla pace familiare

Un rapporto OCSE del 2006,  “Live longer”, stima che in assenza di modifiche degli attuali schemi di lavoro e pensionamento, il rapporto anziani inattivi per lavoratore attivo è destinato a raddoppiare, passando dal 38% del 2000, al 70% entro il 2050. In questo stesso lasso di tempo in Europa questo rapporto potrebbe diventare 1:1. Restando così le cose, il PIL pro capite in area OCSE si ridurrà dell’1,7% l’anno nell’arco delle prossime tre decadi, riducendosi di circa il 30% rispetto al suo tasso tra il 1970 e il 2000. Ma in realtà il futuro non è mai così semplice da decifrare. Così appena un anno dopo la pubblicazione di questo rapporto, la pensione di molti anziani è stata ridotta in polvere dalle speculazioni in borsa. Di conseguenza, molti di loro sono dovuti tornare a lavorare. Almeno quelli che hanno avuto la fortuna di trovarlo un lavoro. Secondo gli autori del rapporto OCSE a questo punto vanno innanzitutto sfatati due miti: che gli anziani tolgano lavoro ai giovani e che con l’avanzare degli anni la capacità lavorativa si deteriori. Il motto live longer, work longer va però declinato nelle realtà delle singoli nazioni e per questo l’OCSE ha lanciato una serie di studi nazionali chiamati “Working better with age”. Che non significa tornare alla realtà degli USA di fine 1800, quando il 68% degli uomini over-65 erano ancora al lavoro, ma trovare soluzioni per far lavorare meglio le persone di età compresa tra i 55 e i 64 anni. In area OCSE il 57,5% di questa fascia d’età è ancora al lavoro, anche se le percentuali variano sensibilmente da una nazione all’altra. A guidare la classifica degli anziani più stacanovisti è l’Islanda, con l’83,6% ancora al lavoro, seguita da Nuova Zelanda (76,3%), Svezia (74%), Norvegia (72,2%) e Svizzera (71,5%). Sul versante opposto la Turchia, con appena il 31,4% di questa fascia d’età ancora al lavoro, la Grecia (33,7%) e la Slovenia (35,8%). Tutto ciò riguarda l’ambito della macroeconomia dell’invecchiamento e del lavoro. Marco Bertoni e Giorgio Brunello dell’Università di Padova sono invece andati ad analizzare un altro aspetto del pensionamento, cioè le ricadute in ambito domestico. Analizzando le interviste fatte a 840 donne di Osaka, i due ricercatori hanno trovato interessanti informazioni e dati sulla cosiddetta ‘sindrome del marito pensionato’ (SMP) che affligge la salute mentale delle mogli dei pensionati in tutto il mondo. I ricercatori italiani hanno evidenziato che il pensionamento del marito e la sua durata hanno un significativo impatto sulla SMP, che si traduce in un aumento di stress, depressione e disturbi del sonno per le mogli. In particolare, ogni anno di vita da pensionato in più del marito si traduce in un aumento del 5,8-13,7% di probabilità che le ‘casalinghe disperate’ sviluppino la ‘sindrome del marito pensionato’.

Invecchiamento e pensioni.

Il sistema pensionistico, è noto, non gode certo di buona salute a livello planetario. Il rapporto OCSE Pensions Outlook 2014, analizza le varie modalità messe in atto dalle diverse nazioni per affrontare sfide, quali quella demografica, alla base di questa crisi. Le generazioni ‘baby boom’ sono destinate pian piano a scomparire, lasciandosi dietro elementi più permanenti quali l’allungamento dell’aspettativa di vita. Con la prospettiva di anziani sempre più longevi, mantenere invariati gli anni di versamenti pensionistici, significherà trovarsi a spalmare i contributi accumulati su un maggior numero di anni, cioè in definitiva rassegnarsi ad avere pensioni più basse. Nel caso in cui invece i governi o i datori di lavoro dovessero addossarsi l’onere dei costi extra generati dal maggior numero di anni trascorsi in pensione, rispetto ai contributi versati durante gli anni di lavoro, probabilmente si troverebbero a fronteggiare problemi di solvenza o di sostenibilità fiscale. Gli autori del rapporto insomma concludono che versare più contributi e più a lungo, soprattutto ritoccando in avanti l’età pensionabile, sembra il modo migliore per venir fuori da questi problemi. In questo modo si andrebbe a mantenere il giusto rapporto tra anni di contributi versati e anni di pensionamento. E molti Paesi si sono infatti adeguati, innalzando l’età pensionistica o definendo l’età della pensione sulla base dell’aspettativa di vita. Non si può certo dire che questo sia un approccio equo però, perché l’allungamento dell’aspettativa di vita non è distribuito uniformemente attraverso tutta la società. Fissando l’età pensionabile a 65 anni, quindi un impiegato potrebbe contare in media su quattro anni di pensione, rispetto ad un operaio, che magari i contributi li ha cominciati a versare molto prima dell’impiegato, avendo iniziato a lavorare prima. In altre parole l’operaio con questo sistema verserebbe in proporzione più contributi e godrebbe della pensione per un minor numero di anni. Forse, riflettono gli autori, un approccio migliore potrebbe dunque essere quello di collegare il numero degli anni di versamenti all’aspettativa di vita; ma per fare questo sono necessari una serie dati, attualmente non disponibili in tutti i Paesi. Per non parlare del fatto che non è affatto detto che l’aspettativa di vita si mantenga quella attuale o magari aumenti in futuro. Il rapporto OCSE Roadmap for the Good Design of DC Pension Plans raccomanda delle rendite parziali di default per proteggersi dal rischio longevità. I fondi pensione e i provider di rendite hanno bisogno di strumenti finanziari per mitigare il rischio longevità. E qualche suggerimento è contenuto nel rapporto OCSE, il Mortality Assumptions and Longevity Risk.

I pensionati del terzo millennio

Di cosa c’è bisogno per vivere una vecchiaia felice? Di una salute di ferro, una bella casa in cui vivere, famiglia, amici e naturalmente di un po’ di soldi per godersi la vita. Secondo i dati del rapporto OCSE Pensions at a Glance 2013 oggi la maggior parte dei pensionati ha uno standard di vita non dissimile da quello dei lavoratori attivi. Almeno come regola generale. E non sorprende, perché il pensionato di oggi ha alle spalle una vita all’insegna del posto di lavoro fisso, un miraggio per chi si affaccia oggi nel mondo del lavoro. Così i pensionati delle prossime generazioni saranno molto ma molto diversi; alcuni saranno stati disoccupati a lungo, altri avranno avuto lunghi periodi di bassi salari; solo alcuni continueranno a godere di buoni stipendi e di posti stabili. Il gap tra chi guadagna molto e chi poco si allarga sempre di più e parallelamente diverge la propensione al risparmio di questi due gruppi. Essere povero, significa in genere anche non godere di buona salute e arrivare alla vecchiaia con un bel carico di malattie e disabilità. Così, la vecchiaia per i giovani di oggi potrebbe essere assai meno dorata di quella che osservano oggi nei loro genitori. Ma lasciare che la gente invecchi in maniera così dissimile non rappresenta una buona politica, oltre ad essere eticamente scorretto. La disoccupazione giovanile è a cifre record in tutti i Paesi OCSE e questo impone una pesante ipoteca sugli anziani di domani. E’ necessario intervenire prima che questa generazione entri nella terza età, cercando di prevenire al massimo i rischi per la salute e ridisegnando i sistemi di protezione sociale. E soprattutto cercando di dare ai giovani le migliori chance di mettere in atto tutte le loro potenzialità.

Com’è la vita da vecchi?

I giovani non ci pensano perché per loro la vita è l’hic et nunc, il presente, in genere bello e felice. Ma affacciarsi nel futuro restituisce un quadro un po’ diverso di come saremo da anziani ed è bene cominciare a farci un pensiero. Il fattore chiave che determina come sarà la vita nella terza età è la disponibilità economica. Al momento le cose sono abbastanza soddisfacenti, visto che il tasso medio di povertà tra gli anziani in area OCSE è sceso dal 15,1% del 2007, al 12,8% del 2010, nonostante l’aumento dei tassi di povertà sperimentato a livello di popolazione generale per via della crisi economica. Certo, anche nel caso delle pensioni il gender gap si fa sentire, con le donne esposte ad un maggior rischio di povertà, vuoi perché percepiscono pensioni più basse, vuoi perché spesso sopravvivono al compagno di una vita e dunque anche alla sua pensione. Importanti determinanti di una vecchiaia di successo sono anche gli amici e la famiglia; eppure oltre il 20% degli over-65 afferma di non avere più rapporti con gli amici. Altrettanto importante per l’anziano è l’accessibilità ai servizi pubblici, visto che necessitano di maggior assistenza rispetto al resto della popolazione. C’è poi la spesa per l’assistenza, che a volte assorbe oltre il 60% della pensione. Qualcuno già da tempo ha adottato soluzioni drastiche. In Svizzera ad esempio, il costo dell’assistenza degli anziani è così alto (anche 5-10.000 dollari al mese) che alcune famiglie ‘esportano’ nonno e nonna in Tailandia per potersi permettere di pagare una casa di riposo. Tra l’altro la Svizzera è uno dei Paesi col più alto tasso di povertà (22%) in area OCSE. In Corea, dove di anziani ce ne sono molti, le famiglie sono ricorse a soluzioni meno drastiche, servendosi del sistema uHouse (Ubiquitous Health House) per monitorare via internet la salute dei propri cari. Questo sistema aiuta le famiglie e gli anziani a mantenere la loro privacy e indipendenza, fornendo comunque assistenza domiciliare e di fatto sostituendo i servizi ospedalieri.

Fonte: quotidiano sanità

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