Alzheimer, quando la miglior medicina è l’affetto di parenti e amici

12 gennaio 2017
Alzheimer, quando la miglior medicina è l’affetto di parenti e amici

Lelia si è accorta da sola che qualcosa nella sua vita stava cambiando. Che le pagine in cui erano appuntati tutti i suoi ricordi, lentamente, si stavano cancellando. Aveva 70 anni ed aveva intuito che non era più capace di gestire appieno la sua autonomia. Così, decise di rivolgersi ad un medico per capire, per conoscere meglio la sua condizione. E dopo pochi mesi raccontò tutto ai suoi figli e chiese aiuto. Perché tra le paure più grandi che spaventano le persone malate di Alzheimer, c’è sicuramente quella di restare soli. Di essere abbandonati, di non avere più mani da stringere e su cui fare affidamento. Iniziò a girare tra medici, neurologici, geriatri, fino ad effettuare il prelievo del midollo spinale per ottenere la diagnosi più vicina che potesse confermare o meno la sua patologia. Una patologia dovuta ad un accumulo anormale di alcune proteine nel cervello. E’ così che l’Alzheimer è entrato nella vita di Leila e dei suoi familiari.

PEZZETTI DI VITA CHE SI PERDONO
«Alle persone malate di Alzheimer la malattia cancella tutta la loro storia, tutte le storie che le fanno da contorno. Ogni giorno perdono un pezzetto della loro vita». Da quando sua madre non è stata più in grado di badare a se stessa a causa dell’acutizzarsi della forma di demenza, Lorenzo Radice ha deciso di occuparsene di persona portandola nella sua casa. Perché «l’affetto, la compagnia, la vicinanza, sono medicine più efficaci di qualsiasi farmaco. Cerchiamo di darle una presenza continua. Ed i risultati si vedono. Da quando abbiamo deciso di non darle più i farmaci che le erano stati prescritti e che le avevano causato degli effetti collaterali, è molto più serena, più tranquilla. Certo, – racconta Lorenzo – è raro che mi chiami con il mio nome, ma mi riconosce, sa che le voglio bene, anche se capita che mi confonda con qualcun altro. Ma quando mi vede il suo viso si illumina. E’ come una bambina che sorride e si emoziona quando la sera vede tornare a casa il padre. Conserva ancora la capacità di riconoscere una persona amica, una persona a cui vuole bene, di cui si fida». E proprio i legami, gli affetti, le piccole certezze, sono determinati nel rallentare il processo di perdita della memoria. «Per un malato di Alzheimer essere abbandonati dagli amici, dai parenti, rappresenta un dolore enorme che incide notevolmente nel peggioramento delle cellule cerebrali».

IL RAPPORTO, L’IMPORTANZA DELL’ASSISTENZA SANITARIA
Quella si Leila è una storia che ricorda da vicino quella di oltre un milione di persone che vivono nel nostro Paese.

  • «In Italia si stima che attualmente le persone con demenza siano 1.241.000. Per tutte loro è giunto il momento di cambiare la cultura dell’assistenza, ovvero di cambiare il modo di prendersi cura di loro mettendo al primo posto qualità di vita e dignità della persona stessa»

Spiega Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia, commentando il Rapporto Mondiale Alzheimer 2016 intitolato “Migliorare l’assistenza sanitaria ai soggetti con demenza”, presentato in occasione della Giornata Mondiale Alzheimer. Il Rapporto – redatto dai ricercatori del King’s College London e dalla London School of Economics and Political Science (LSE) – rivela che la maggior parte delle persone con demenza deve ancora ricevere una diagnosi, oltre a un’assistenza sanitaria completa e continua. Inoltre, invita ad adottare un’azione comune per estendere l’assistenza sanitaria a tutte le persone con demenza nel mondo. «Questo Rapporto di grande importanza evidenzia la necessità di riprogettare e riorientare i servizi di assistenza alle persone con demenza per affrontare le sfide del ventunesimo secolo – aggiunge Martin Prince, autore principale del dossier – . Abbiamo solo 10-15 anni per far bene le cose, pianificare e realizzare una piattaforma realistica e robusta per erogare servizi di assistenza sanitaria a tutte le persone con demenza, in attesa che si rendano disponibili trattamenti nuovi e più efficaci».

M.A.R.I.O., IL ROBOT ASSISTENTE
Tra i nuovi trattamenti in fase di sperimentazione un ruolo particolare se lo ritaglia M.A.R.I.O., il robot assistente che si prenderà cura degli anziani con demenza senile. M.A.R.I.O., acronimo di “Managing active and healthy aging with use of caring service robots – Sistema di gestione dell’invecchiamento attivo e in salute mediante l’uso di robot assistivo”, è un progetto di ricerca finanziato con quattro milioni di euro dal programma Horizon 2020 dell’Unione Europea. Partito nel febbraio del 2015, coinvolge dieci enti europei tra cui anche l’Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo.

Il robot, quando sarà completata la fase di sviluppo e di prova, assisterà gli anziani affetti da Alzheimer con demenza senile lieve dal punto di vista mnemonico e sociale. Non fornirà assistenza fisica ma aiuterà gli anziani a non sentirsi soli: potrà telefonare, leggere le notizie, fungere da portiere, ricordare gli orari dei pasti o delle pillole.

Chissà se M.A.R.I.O. riuscirà a garantire lo stesso affetto e la stessa cura che possono trasmettere i familiari, i parenti e gli amici più cari delle persone affette da Alzheimer. Quello che più appare certo, però, è che il Rapporto «invita a un mutamento radicale della modalità di erogazione dei servizi di assistenza sanitaria ai soggetti con demenza, modificandola verso un’assistenza di base non specialistica» e sottolinea che «l’assistenza deve essere olistica, continua e integrata, con particolare attenzione alla qualità di vita delle persone con demenza e di chi se ne prende cura» affinché le pagine in cui sono appuntati nomi, volti e ricordi non vengano del tutto cancellate.

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